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Immagine del redattoreAvv. Ida Blasi

Privacy e attività di indagine difensiva

Aggiornamento: 10 mag 2022


L'esercizio del diritto di difesa, anche nella fase anteriore all’instaurazione di un procedimento, può esprimersi attraverso l’acquisizione dei risultati di attività di investigazione difensiva.

Le corrette modalità di assunzione degli elementi utili alla parte rappresentata impongono l’osservanza non solo delle forme e delle garanzie stabilite dagli artt. 391 bis e ss. c.p.p., ma anche delle disposizioni poste a presidio della riservatezza delle persone interessate dall’atto di investigazione.

Queste ultime, definite “Regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per fare valere o difendere un diritto in sede giudiziaria”, compendiate nell’Allegato A.2 al Codice in materia di protezione dei dati personali, venivano pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 12, del 15 gennaio 2019, in seguito alla verifica di conformità al Regolamento UE 2016/679 del precedente Codice deontologico.

È importante evidenziare come tali Regole fissino specifici obblighi non solo in capo all’avvocato titolare dell’incarico difensivo, ma anche in capo ad altri soggetti tra i quali, ad esempio, gli investigatori privati.

Quali conseguenze derivano dall’eventuale violazione delle disposizioni in tema di dati personali, ai fini della utilizzazione probatoria dell’atto di investigazione difensiva?

Le cosiddette investigazioni difensive, introdotte nel codice di procedura penale dalla legge 7 dicembre 2000 n. 397, nell’autonomo Titolo VI Bis, agli artt. 391 bis, 391 ter, 391 quater, 391 quinquies, 391 sexies, 391 septies, 391 octies, 391 nonies, 391 decies, del codice di procedura penale, rappresentano un importante strumento in chiave di verifica dell’esistenza - e della eventuale conseguente acquisizione - di elementi conoscitivi rilevanti rispetto alla individuazione ed attuazione di una seria strategia difensiva.

Dopo una iniziale diffidenza, soprattutto con riferimento a particolari tipologie di procedimenti penali (nella specie, per i reati di cui all’art 51, comma 3 bis, c.p.p., vedasi ordinanza emessa in data 01.08.2001 dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Napoli, n. 27/2002 Reg. Ord. Corte Costituzionale, con cui veniva sollevata questione di illegittimità costituzionale degli artt. 391 bis e ss. c.p.p., dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza),

l’utilizzo dell’investigazione difensiva ha vissuto una fase di significativo incremento. Gli atti di investigazione provenienti dalla parte privata, specialmente nell’ambito del procedimento penale, possiedono la stessa dignità, ma soprattutto producono gli stessi effetti processuali ed esplicano la stessa valenza probatoria degli atti di indagine raccolti dal Pubblico Ministero, al punto da essere equiparati ad atti pubblici con conseguente responsabilizzazione sia del difensore che li raccolga, sia dei suoi collaboratori o incaricati a vario titolo (cfr. per tutte l’ormai risalente, S.U. n. 32009 del 27.06.2006 – 28.09.2006).

In tale contesto, fondamentale si è rivelata la previsione di un sistema di regole deontologiche e di buona condotta, anche in relazione al trattamento dei dati personali, che hanno assolto alla funzione di munire gli avvocati, ma anche i soggetti da loro incaricati, di adeguate indicazioni operative tali da garantire, ove opportunamente rispettate, la piena correttezza e legittimità del risultato dell’attività investigativa.

In tale coacervo di regole spiccano, per quanto qui interessa, quelle specificamente attinenti al trattamento dei dati personali, di recente oggetto di una verifica di conformità al Regolamento (UE) 2016/679, come previsto dall’art. 20, comma 4, del D. L.vo n. 101/2018, ad opera del Garante per la Protezione dei Dati Personali. Queste, con provvedimento del 19 dicembre 2018, venivano pubblicate come “Regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per fare valere o difendere un diritto in sede giudiziaria” in Gazzetta Ufficiale n. 12 del 15 gennaio 2019 e costituiscono attualmente l’Allegato A.2 al vigente “Codice in materia di protezione dei dati personali”.

È importante, innanzitutto, chiarire che le regole deontologiche de quibus, oltre a dover trovare applicazione sia in sede propriamente giudiziaria, sia nella fase eventualmente propedeutica all’instaurazione di un giudizio o in quella successiva, individuano quali destinatari degli obblighi gli avvocati, i loro collaboratori, i liberi professionisti che su mandato dell’avvocato e unitamente al medesimo prestino attività di consulenza e assistenza nonché i soggetti che, in virtù di uno specifico mandato, svolgano in conformità alla legge attività di investigazione privata.

Gli anzidetti soggetti, pertanto, sono tenuti in linea generale ad acquisire e trattare i dati dei terzi coinvolti nell’attività di indagine difensiva, secondo il criterio della necessaria pertinenza, completezza e non eccedenza dei dati stessi rispetto alle prerogative difensive perseguite. In altri termini, può ritenersi giustificata l’acquisizione dei soli dati personali che appaiano concretamente indispensabili ai fini dell’espletamento dell’attività di investigazione e non anche di quelli che possano risultare superflui e irrilevanti rispetto all’oggetto del mandato difensivo o del mandato ricevuto dal difensore. Per quanto, in particolare, attiene all’attività demandata sulla base di specifico incarico agli investigatori privati, l’Allegato A.2 al vigente “Codice in materia di protezione dei dati personali”, detta al Capo IV “Trattamento da parte di investigatori privati”, una specifica serie di disposizioni cristallizzate negli artt. 8 – 11, che, in estrema sintesi, possono essere riassunte come segue: L’investigatore privato deve organizzare il trattamento anche non automatizzato dei dati personali, secondo modalità e criteri che nel caso concreto risultino più adeguati al rispetto dei diritti, delle libertà e della riservatezza degli interessati;

L’investigatore privato non può svolgere attività di indagine, ricerche o altre forme di raccolta dei dati non previste nell’incarico ricevuto;

L’atto di incarico conferito all’investigatore privato deve contenere la esplicitazione del diritto che si intenda esercitare e/o tutelare, dei riferimenti del procedimento penale in relazione al quale l’attività di investigazione debba essere acquisita, i principali elementi di fatto che la giustificano e il termine entro il quale essa debba essere espletata; L’investigatore privato deve compiere personalmente le indagini, salvo che nell’atto di incarico non sia autorizzato ad avvalersi di collaboratori o non siano specificamente indicati i nominativi di altri investigatori contestualmente autorizzati; Nel caso si avvalga di collaboratori autorizzati al trattamento di dati personali, entro il limite strettamente necessario e pertinente alla collaborazione, l’investigatore privato è tenuto a fornire adeguate istruzioni riguardo ai criteri e alle modalità per provvedervi nonché a vigilare sulla puntuale osservanza della normativa in materia e delle istruzioni impartite; L’investigatore privato è tenuto ad informare periodicamente il difensore o il soggetto che gli abbia conferito l’incarico sull’andamento dell’attività di indagine;

L’investigatore privato non può utilizzare modalità investigative elusive della disciplina normativa in tema di trattamento dei dati personali, né dei principi di cui al Regolamento (UE) 2016/679, dovendo sempre verificare anche l’autorizzazione al trattamento dei dati in capo ad altri soggetti che si dichiarino titolari del trattamento, adoperare forme lecite di rilevamento di audio e video riprese, rispettare i presidi normativi in materia di raccolta di dati biometrici; L’investigatore privato può conservare i dati acquisiti per il tempo necessario all’espletamento dell’incarico, con conseguente cessazione al termine dell’attività del trattamento degli stessi.

Si deve a questo punto evidenziare come l’inosservanza delle disposizioni in materia di trattamento dei dati personali, ivi comprese quelle che più specificamente riguardano l’attività degli investigatori privati, comporti, oltre a responsabilità civile, penale e/o amministrativa e disciplinare, l’inutilizzabilità dei dati raccolti, alla stregua di quanto disposto dall’art. 2 decies del D.L.vo n. 101/2018, per effetto del quale “… i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati, salvo quanto previsto dall’articolo 160-bis …”.

L’art. 160 bis del “Codice in materia di protezione dei dati personali”, sempre ai fini della utilizzabilità degli atti assunti in violazione della disciplina concernente il trattamento dei dati personali, precisa che la “… validità, l’efficacia e l’utilizzabilità nel procedimento giudiziario di atti, documenti e provvedimenti basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di Regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali”.

Di fatto, dunque, le richiamate disposizioni rinviano allo statuto probatorio desumibile dal codice di rito per stabilire se, e a quali condizioni, le investigazioni difensive espletate in spregio della disciplina posta a tutela dei dati personali siano legittimamente utilizzabili nell’ambito del procedimento penale.

Ebbene, deve ritenersi che, ferme le cennate responsabilità civile, disciplinare, penale o amministrativa, l’atto di investigazione difensiva conservi validità e sia legittimamente utilizzabile in sede penale. A tale proposito, infatti, le ipotesi di inutilizzabilità dei risultati delle indagini svolte a norma degli artt. 391 bis e ss. c.p.p., sono soltanto quelle espressamente stabilite dall’art. 391 bis, commi 6 e 9, c.p.p., mentre restano legittimamente utilizzabili quelle assunte nel rispetto delle norme processuali che regolano la formazione della prova, ancorché acquisite in violazione di divieti nascenti da disposizioni normative poste a tutela di altri diritti.

Tale conclusione è avvalorata da alcuni importanti arresti della giurisprudenza di legittimità in tema di utilizzazione probatoria secondo i quali, in linea generale “… l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione della legge (artt. 190 e 191 c.p.p.) ha riguardo, proprio per la collocazione sistematica, alla violazione delle norme processuali che regolano la formazione della prova e non anche le prove acquisite in violazione di divieti nascenti da disposizioni normative a tutela di altri diritti …” (cfr. ad es. Cass. Pen. Sez. V, ud. 28.05.2015, dep. 29.07.2015, n. 33560).

Quanto ed in particolare, alla violazione di disposizioni in materia di riservatezza, è stato efficacemente affermato che la tutela accordata alla privacy non è assoluta e cede dinanzi ad altre esigenze tra cui quelle sottese all’accertamento probatorio proprio del processo penale (cfr. ad es. Cass. Pen. Sez. II, ud. 08.03.2013, dep. 23.05.2013, n. 22169).

Tale conclusione, con ogni evidenza non autorizza un approccio aprioristicamente superficiale nell’ambito dello svolgimento delle investigazioni difensive, laddove – a prescindere dai profili di utilizzabilità probatoria – il soggetto obbligato può incorrere in gravi conseguenze.

Avv. Ida Blasi

Tonucci & Partners


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