Pur se parecchi sono i casi di indagini giudiziarie scaturite da inchieste giornalistiche (che hanno conferito anche apporti risolutivi all’investigazione, imbeccati proprio dagli organi di informazione), e pur se gli stessi media -di per sé- rappresentano un meccanismo democratico per divulgare, e far conoscere, il modo nel quale la giustizia viene resa, tuttavia un uso distorto della “cronaca giudiziaria” può rappresentare un pericoloso pregiudizio a discapito –proprio- delle garanzie processuali.
È essenziale non prescindere da tale presupposto, quando si intraprende una analisi del rapporto tra processo penale e processo mediatico: già, verrebbe da dire, le due “locuzioni” risultano –paradossalmente- “in contrasto” tra loro.
Il “processo”, infatti, è uno (non frazionabile, non divisibile, non scomponibile, in più parti): e –soprattutto- la “cronaca”, così deve essere.
Al contrario, in più occasioni, si assiste ad uno sdoppiamento del dibattimento che produce l’effetto collaterale di un travisamento delle percezioni del pubblico spettatore: si passa dal principio “della amministrazione” della giustizia, a quello della sua “interpretazione”, in un quadro nel quale a farla da padrone sono la totale assenza di cognizioni tecnico/giuridiche di gran parte della platea, e –in molti casi- proprio la scadente qualità della “rappresentazione” informativa ingenera valutazioni e considerazioni che sviano dall’oggetto della causa.
Subentrano –tuttavia- aspetti che (al di là di una necessaria garanzia di costituzionalità, e nel rigoroso presupposto di inammissibilità di una “giustizia segreta”), in alcun modo riguardano la cronaca, intesa quale essenza di illustrazione e descrizione del caso: il sensazionalismo giornalistico, la voglia di emergere dell’“operatore del diritto”, l’egocentrismo dell’“accusato”, la disperazione dei familiari della vittima.
Elementi –questi- che spostano l’attenzione dal processo vero e proprio, e che spesso -al contrario- la concentrano su particolari totalmente ininfluenti ai fini del decidere: il che, fa emergere quell’aberrante distinzione tra “innocentisti” e “colpevolisti” da parte di soggetti che (quali meri fruitori di giornali o televisioni, e null’altro), non sanno nemmeno cosa sia un “fascicolo d’ufficio”, né mai hanno letto un decreto di fissazione di udienza.
La cronaca giudiziaria, cioè, non deve essere ritenuta come qualcosa che “si contrappone” all’esterno delle aule di Giustizia, perché non deve alterare l’immagine del processo -né spettacolarizzare il dramma- pur nel sacrosanto diritto del popolo di sapere: quel popolo “in nome” del quale ogni sentenza ha il suo incipit, e la sua dedizione.
Esistono macchinosissime congiunzioni tra la Giustizia e la sua descrizione mediatica: connessioni che –talvolta- non vanno di pari passo (si pensi ai tempi lunghi del processo, ma anche delle stesse indagini).
Così come quel “pathos” nella narrazione e/o descrizione dei fatti –da parte del “reporter” – possono indurre le altrui “sensibilità” ad un “pre-giudizio” in stile “imprinting” che forma quella memoria stabile nell’ignaro lettore/spettatore, il quale – già dopo “trenta secondi”- si orienta quasi definitivamente estendendo la sua (personale) sentenza: quella priva di basi logico/giuridiche, quella emessa per spinta emotiva, quella senza alcun riferimento a risultanze (o regole) processuali, ma fondata esclusivamente su “ingredienti” appresi de relato, e riferiti qua e là su un articolo o su un format (con tanto di colonna sonora coinvolgente).
“Sbatti il mostro in prima pagina”, si diceva un tempo (donde il titolo di un famoso film), e giù con la gogna (mediatica, appunto) di un povero Cristo che magari –dopo anni- viene completamente assolto con quella famosa formula piena “per non aver commesso il fatto”: ed è capitato -sin troppo spesso- che di quella assoluzione nessuno ne abbia mai più saputo, perché dopo anni cala l’interesse mediatico, e –di conseguenza- viene meno “lo scoop” ricercato dal cronista.
Ma questa capacità di suggestione dei mass media, si sa, non a caso ha concepito la definizione di “quarto potere” (proprio per distinguerlo da quello legislativo, esecutivo, e –appunto- giudiziario): la “traduzione libera”, fatta al “popolo”, di quella che è la individualistica lettura, ancorché autorevole, di una frase trascritta –ad esempio- in un verbale di intercettazione, ovvero il “riassunto” fatto “in parole povere” di una relazione peritale, producono convinzioni ancor più delle motivazioni della sentenza.
Il “processo mediatico” inizia prima del processo, dunque.
È decontestualizzato, simultaneo, entusiasmante: tutto ciò che non è la Giustizia.
Si ferma, spesso, proprio all’inizio: ma, quell’“inizio”, sin troppo spesso è già la sua fine.
La stortura, tuttavia, può degenerare in ulteriori fenomeni paradossali: è capitato, ad esempio, che alcuni giornalisti si sono ritrovati come “indagati” da quella stessa Procura per aver tentato di trovare elementi a discolpa (attraverso proprie inchieste), ovvero per “diffamazione” per aver offeso l’onore ed il decoro di quel p.m. contestandone –legittimamente- l’approccio investigativo, ovvero accusati di intralcio alla giustizia.
Il tutto, quando –di contro- si assiste (soprattutto negli ultimi anni) ad un proliferare di “fake news”: quei falsi giornalistici, nella migliore delle ipotesi per notizie non verificate alla fonte, sino ad arrivare ai casi più gravi di vere e proprie bufale inventate di sana pianta.
In mezzo a tutto questo, tuttavia, esiste il processo: esistono i protagonisti (polizia giudiziaria, magistrati, avvocati, periti, testimoni), esistono le indagini, il dibattimento, la scienza del diritto. Esistono imputati e vittime che vivono (ciascuno per il proprio dolore) il rispettivo dramma, sul quale proprio quel “processo mediatico” potrebbe rappresentare l’ultimo baluardo di speranza: quel circo che si forma attorno a loro, che concede una “notorietà” che può far bene, perché può portare solidarietà, distrazione, possibilità di parlare, e –in alcuni casi- può aiutare le parti ad ottenere il denaro necessario per provvedere al pagamento degli onorari dello “staff difensivo” .
Ci si è chiesti più volte come quel muratore bergamasco possa aver avuto modo di saldare le parcelle delle decine di consulenti che si sono interfacciati durante i numerosi gradi di giudizio, svolgendo la propria opera professionale in suo favore: e –mentre tutta l’Italia, oggi, è arrivata a conoscere di “DNA mitocondriale”- il pensiero di una poco nobile -e forse deontologicamente rilevante- “donazione indiretta” (da parte di una testata televisiva che –in tal modo- si è assicurata l’esclusiva della cronaca di ogni udienza), è venuto a molti.
Ci si è chiesti –ancora- più volte per quale motivo la “semplice scomparsa” di un’adolescente sul finire del mese di Agosto del 2010, abbia –sin da subito- mobilitato decine e decine di troupes giunte dalla notte stessa in un paesino del sud sino ad allora sconosciuto: il chiarimento viene enunciato –dopo anni- dalla Corte di Cassazione, quando descrive l’imputata principale come autrice di una "fredda pianificazione d'una strategia finalizzata, attraverso comportamenti spregiudicati, obliqui e fuorvianti, al conseguimento dell'impunità", e quando sottolinea che la stessa "strumentalizzando i media" cambiò direzione alle investigazioni come "astuto e freddo motore propulsivo" indirizzandole verso "piste fasulle”.
Ci si chiede –ancora- perché in taluni processi si dispone il divieto di ingresso in aula di telecamere e macchine fotografiche, mentre in altri no: e -fermo restando che l’eventuale decisione in tal senso viene presa caso per caso- il tutto deve essere riferibile al concetto di “interesse sociale” particolarmente rilevante al dibattimento, ma –soprattutto- la priorità deve essere data alla necessità di assicurare un sereno svolgimento del processo.
In ultimo, una considerazione personale.
L’espressione “processo mediatico” è entrata nel gergo giornalistico e sociologico, ed indica –di fatto- una rappresentazione dell’evento criminoso –da parte dei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto televisivi- che viene impostata con esasperazione, sino –si ribadisce- ad arrivare ad una raffigurazione “parallela” della intera vicenda: spesso esso tende alla colpevolizzazione, quasi trascurando la vittima, con lo scopo di influenzare la “opinione pubblica” e con sempre meno contatti con la realtà giudiziaria.
In più occasioni si sono rilevate violazioni, anche gravi, che –tuttavia- non riducono il proliferare di trasmissioni all’uopo concepite: gli effetti di una cattiva informazione possono essere molto pericolosi, potendo culminare –nel caso di processi per omicidio- anche ad influenzare la serenità della giuria popolare nei diversi gradi del processo reale, sino ad influenzarne il giudizio.
Molto delicata -e dibattuta- è la questione relativa al rapporto dell’Avvocato con i media: il ruolo rivestito dal difensore impone prudenza, quella che –spesso- viene dimenticata quando il fascino della telecamera fa perdere di vista l’attenzione nel non divulgare notizie che già non siano di dominio pubblico, o che possano riguardare “strategie” da esternare per proprio compiacimento.
Curiosa appare la circostanza secondo la quale solo “alcuni” eventi criminosi giungono “alla ribalta” della cronaca, ed ogni trasmissione (anche in più fasce orarie di una stessa giornata, in più reti, in più network contemporaneamente) decide di seguire quell’unico caso: quasi a reciprocamente rubarsi “le indiscrezioni” e poterle trasmettere per primi.
Il tutto, pur nella consapevolezza dell’esistenza di altre centinaia di processi pendenti, ma che -evidentemente- non stimolano il senso dello spettacolo.
Avv. Cristiana Arditi di Castelvetere
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