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Dal concetto di pater familias a quello di bigenitorialità

La separazione tra coniugi è divenuto un “fenomeno” in progressivo aumento: l’attuale legislazione in materia, se rapportata a quella antica, risulta essere un portentoso traguardo cui è giunta la nostra società civile.

In effetti, il percorso è stato lungo e tortuoso, più volte condizionato dalla cultura dell’età storica e – soprattutto - dai vari “regimi” statuali che – di volta in volta - esprimevano priorità diverse rispetto alla concezione di forza, individualismo e/o quelli che oggi chiameremmo “diritti umani”.

Spicca - nella fattispecie “famiglia” – l’evidente trasformazione per quanto riguarda il concetto di potere, il quale -peraltro - subisce, nella sua evoluzione, una “conversione nella conversione” a cominciare dalla sua stessa definizione: da patria potestà a responsabilità genitoriale.

Se torniamo indietro di “svariati” anni , notiamo che nel Diritto Romano (espressione con la quale indico genericamente quell’insieme di norme che hanno costituito per circa tredici secoli l’ordinamento giuridico), la Patria Potestà costituisce la base sulla quale si fonda la Familia: essa cade su tutti i soggetti (ribadisco, tutti) nella comune sottoposizione al vincolo agnatizio (generato dallo stesso padre), e si esercitava indistintamente su tutti coloro che - a diverso titolo - erano parte della familia, ovvero che – ancora a diverso titolo - ne erano divenuti componenti.

In particolare, la Patria Potestà si acquistava nei confronti del filius: il processo attraverso il quale l’istituto è andato evolvendo, manifesta una graduale trasformazione del suo livello e del suo rilievo.

In principio vi era la massima pienezza del potere paterno: la stessa si ridimensiona di volta in volta introducendo dapprima notevoli limitazioni, sinché si arriva ad un sostanziale rovesciamento delle linee originarie nella legislazione di Giustiniano.

Il Pater aveva – in ogni caso - un potere quale titolare della potestà sul gruppo familiare e poteva agire a suo totale arbitrio: egli poteva allevare o esporre la prole, venderla o locarla, consegnarla all’offeso (per esimersi dalle responsabilità che a lui avrebbero fatto capo per l’illecito imputabile allo stesso figlio); punirli corporalmente, ed anche ucciderli.

Ancora, ove volessimo considerare i diritti patrimoniali, quella Patria Potestas si traduceva nel senso che solamente i titolari della stessa (quindi, solo il Pater familias) era - per diritto - unico titolare delle ricchezze, ed i soggetti a lui sottoposti erano incapaci patrimonialmente.

La patria postestas, nella sua nozione originaria era perpetua: ebbe diversi ridimensionamenti nel corso dei secoli.

Facendo un salto lunghissimo, notiamo che il processo di evoluzione della Patria potestà continua nel Medioevo, nel Diritto Statutario, negli Stati Pre-unitari (periodo nel quale assistiamo ad un totale ridimensionamento dell’arbitrio del padre, che si traduce nel concetto di correzione”, anche se questo non limita immediatamente la possibilità per il pater di infliggere pene anche gravi): in ogni caso, già con l’entrata in vigore del code civile nei vari territori, si assiste ad una progressiva “democratizzazione”, sino ad arrivare alla estensione del codice civile del 1865.

Vorrei, qui, soffermarmi sull’importanza del precetto secondo il quale “i figli debbono onorare i genitori e rispettarli”: quindi, già si ravvisano notevoli progressi con riferimento al fatto che non vi è più solo il pater, ma la “nuova” Legge del 1865 considera per la prima volta “i genitori” come, ciascuno, titolari di un diritto di rispetto.

Non vi sono sostanziali innovazioni tra la disciplina del 1942 rispetto alla precedente del 1865: vi è una mutazione, tuttavia, non tanto per la concezione sociale di famiglia, quanto per la struttura politica dello Stato, e – quindi - nel rapporto tra le due entità.

Giungiamo, finalmente, alla riforma del diritto di famiglia (1975).

Esso si ispira ad una profonda rivalutazione della individualità di ciascun componente della famiglia con la valorizzazione dei seguenti principi: famiglia come società naturale, uguaglianza tra i coniugi, dignità e tutela dei figli naturali, rivalutazione del coniuge nel campo dei diritti successori e comunione di beni tra i coniugi.

Il tutto, secondo un processo di modernizzazione delle strutture sociali, in ragione della modifica dei comportamenti e dell’evoluzione dei componenti la società civile, con annullamento delle distanze culturali: l'unità familiare non è più -dunque - basata sulla diseguaglianza di un coniuge (la moglie, rispetto al marito), ma - d'ora in poi - deve basarsi sulla uguaglianza giuridica di entrambi.

La premessa di cui sopra - rapportando il momento attuale con la legislazione del Diritto Romano - è la vittoria dell’individualismo, ed è l’inizio per sperare in un miglioramento costante rispetto a quei dogmi impositivi di un potere che, di fatto, non aveva nulla di meritocratico.

La legge 54/2006, è stata - quindi - salutata con entusiasmo: il paradosso storico che si era creato sin lì, era rappresentato dal fatto che l’applicazione della precedente normativa (“nuovo diritto di famiglia” 1975) - dopo secoli di vessazione della moglie - prediligeva - in caso di separazione o divorzio - quasi solo la figura di questa: quale genitore “affidatario” nella quasi totalità dei casi - a partire dagli anni ’80 - era preferita la madre, con ogni altra conseguenza a carico del padre.

La “nemesi storica”, in quegli anni, ha ritenuto che fosse - quindi - più la madre ad avere maggiori riconoscimenti sul piano della quotidianità e dell’organizzazione del figlio, e non più il pater.

E’- quella velocemente definita come “affidamento condiviso” - una legge che, tuttavia, ancora necessita di ulteriori miglioramenti, ma - per quanto mi riguarda - ritengo già una conquista che essa sia stata emanata.

Il dato ancor più confortante, rispetto al passato, è che anche le successive leggi in materia famiglia, hanno comunque messo in risalto una particolare attenzione verso i figli minori.

E’ importante constatare infatti, che il principio di “interesse del minore”, oggi sembra aver “migliorato” la propria ratio, in quanto si tende a garantire sempre di più lo sviluppo armonico della personalità dei minori stessi, nel tentativo di assicurare pertanto la cura e le soddisfazioni dei loro bisogni più appropriati.

Purtroppo, i figli subiscono ulteriori complicazioni che - in buona parte - provengono proprio dai genitori, ovvero da una relazione di coppia in forte crisi: intendiamoci, c’è chi arriva alla decisione di separarsi in maniera più tranquilla, ma vi sono - al contrario - coniugi che vi approdano in maniera estremamente conflittuale, dopo già aver fatto vivere ai bambini anni di litigi ed aggressioni non solo verbali, ma talvolta anche fisiche.

In ogni caso, la separazione tra coniugi è sempre conseguente ad un periodo - più o meno prolungato - di grande insoddisfazione: la coppia ha insofferenza, valori ed obiettivi inconciliabili, forte litigiosità, e - soprattutto - una distanza che progressivamente diviene incolmabile.

Dal punto di vista giuridico, la separazione tra coniugi è l’interruzione di quei diritti e doveri che si assumono con il matrimonio (tranne quelli di assistenza e reciproco rispetto, stante il permanere di una solidarietà post-coniugale): se -come si auspica - i coniugi riescono a trovare un accordo, quelle condizioni congiuntamente stabilite si consacrano nel verbale di separazione consensuale – che, come tale, viene omologato dal Collegio del Tribunale (ovvero, dal 2014, in quella che viene denominata “convenzione di negoziazione assistita”).

Se - tuttavia - l’accordo non si trova, inizia uno dei peggiori procedimenti che l’individuo si può trovare a dovere affrontare: la separazione personale giudiziale tra coniugi.

Considerato che - in circostanze di forte conflitto - spesso non ci si ferma al mero procedimento per separazione, e proprio per la delicatezza di tali contenziosi e/o per la pericolosità di una gestione superficiale degli stessi, sono fermamente convinta che sia necessaria una specifica competenza - in primo luogo - dell’Avvocato chiamato ad assistere la parte in tali giudizi: il che può “fare la differenza” anche nei peggiori contenziosi.

“Specifica competenza” (che io voglio chiamare “specializzazione”), che fa sì che non ci si debba fermare alla mera conoscenza del diritto in sé e per sé (che – pure - deve essere ampia, toccando questi procedimenti infinite parti dello scibile giuridico), ma che preveda il concorso di elementi anche di altra natura: rudimenti di psicologia, un’intima sensibilità, una capacità di valutare il problema nell’intero contesto, ma – soprattutto – un’estrema attitudine per un’assistenza che sia senza pregiudizi, e lontana da riserva mentale.

Nelle separazioni giudiziali si mietono vittime: pur se “il nemico” da abbattere è la controparte, sono i figli minori che risentono di questa ostilità.

Tanti sono i contenuti tecnici che s'insinuano in una crisi di coppia, da dover portare alla conoscenza del Tribunale, per ottenere decisioni relative all’ambito economico (in ogni sua sfaccettatura), nonché relative alla prole: il tutto, caratterizzato da un’impetuosità emotiva che non può essere trascurata, né lasciata libera di manifestarsi in modo scomposto.

Mi limito, quindi, a fare alcune mie personalissime considerazioni sulla L. 54/2006 "Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli": una regolamentazione migliorabile, ma meno male che c’è!

Il principio ispiratore, infatti, è assolutamente condivisibile, ed ha letteralmente capovolto il precedente sistema che vedeva l’affidamento del figlio minore all’uno o all’altro dei genitori “secondo il prudente apprezzamento del Giudice”.

Sappiamo tutti, che quel termine “prudente” alla fine aveva totalmente perso di significato, nel senso che “l’uso” e “la consuetudine” - di fatto - lo abolirono completamente o - nella migliore delle ipotesi - lo trasformarono in “dozzinale”: i figli venivano affidati alla madre, alla faccia di quel retaggio di patria potestas di cui all’inizio di questa mia umile digressione.

L’intenzione - pertanto - di dare concretezza alla “bigenitorialità”, ovvero il chiaro inserimento del minore come “protagonista” e non più “oggetto”, sono stati una notevole svolta culturale.

Purtroppo, faticosamente e solo a distanza di un decennio si sono cominciati a vedere i primi (effettivi) risultati di quello che voleva essere - sin da subito - l’abbandono di un pre-giudizio (tecnicamente inteso) secondo il quale solo la madre è capace di dedicarsi alla quotidianità dei figli.

È pur vero che - quando c’è “conflitto tra coniugi” - il poter “condividere” risulta intento complicato perché la gestione di un tale ossimoro appesantisce la realizzazione dell’auspicio.

“Condivisione” è – infatti - unità di intenti, è progettualità indirizzata verso un obiettivo comune: per due coniugi che litigano (sia pure non condividendo i motivi delle loro reciproche ostilità, e/o dei loro metodi di discussione), è estremamente faticoso già il solo pensare di poter attuare questa condivisione.

Certo, il senso di responsabilità degli stessi dovrebbe prevalere: ma nel momento in cui si è “annebbiati” dalla necessità di ottenere una vittoria a tutti i costi, le dinamiche litigiose non vedono e non sentono nessun consiglio di razionalità.

La Giurisprudenza, in ogni caso, ha tentato di evolversi: pur se di norma il genitore “collocatario” viene ancora preferito nella madre, il “principio astratto” non più così inossidabile: il così detto “maternal preference” non può essere ritenuta verità indiscutibile da applicare - sempre e comunque - in maniera avulsa dal caso concreto, e dalle specifiche esigenze del minore.

E ciò, è stato ben compreso dai Tribunali.

E’, appunto, la bigenitorialità che deve prevalere: se - sino a qualche anno fa - era pressoché automatico che i figli fossero “collocati” presso la madre, oggi l’evoluzione dei sistemi familiari ha dato modo a numerose decisioni di statuire in favore del padre, stabilendo la convivenza prevalente dei figli presso di lui.

Non è più assodata, né pacifica, l’individuazione del genitore di riferimento: si deve tener conto dell’interesse morale e materiale del minore, che è “parte sostanziale” del procedimento, ed è colui al quale la Legge affida la centralità di ogni decisione.

“In mancanza di prove del contrario, entrambi i genitori si devono presumere idonei ad esercitare le loro responsabilità e a divenire affidatari e/o collocatari dei figli” (ord. Tribunale Catania 2016): i Tribunali terranno conto, pertanto, di una serie di circostanze che vanno dal modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, dalle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto.

Il figlio minore verrà collocato stabilmente presso il genitore che possa assicurare una maggiore attenzione, tuttavia garantendo contestualmente all’altro genitore ampi periodi di permanenza presso di sé.

Sul punto, è chiara la Corte di Cassazione (ord. 25134/2018) quando precisa: “in ogni caso, deve assicurarsi il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione “.

L’auspicio, dunque, è che siano gli stessi genitori “litigiosi” a non spostare l’attenzione delle loro personali beghe sulla prole: la genitorialità non è “una gara” a chi è più bravo.

È - semmai - l’impegno indilazionabile (pressante, urgente, indifferibile) di dare al figlio ciò che - di più - egli desidera: l’Amore di padre e madre che si rispettano reciprocamente.


Avv. Cristiana Arditi di Castelvetere

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