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Rapporto padre figli nella crisi matrimoniale

Non è semplice scrivere del rapporto tra padri e figli nella crisi della coppia sotto un profilo strettamente giudico, perché come ogni questione che riguarda rapporti personali e famigliari i confini con gli aspetti relazionali, sociali ed economici sono labili e interconnessi. Se le norme che debbono essere prese in considerazione sono per loro natura astratte e generali, non si possono, però, sottovalutare quegli aspetti più peculiari che è difficile ricondurre a generalizzazioni. Il rapporto tra padri e figli è già complesso di per sé e nella crisi della famiglia assume aspetti ancora più complessi che possono essere individuati anche attraverso l'evoluzione del diritto di famiglia con particolare riferimento a quel complesso di norme che ha caratterizzato e caratterizza la genitorialità.

Il ruolo genitoriale nel corso degli anni si è evoluto ed è mutato quale conseguenza di un più ampio cambiamento sociale, che ha determinato via via differenti equilibri sia nei rapporti di coppia sia nell'ambito famigliare. Famiglia la cui composizione e funzione sociale è anch'essa mutata verso un modello più ristretto, duttile e permeabile ai veloci cambiamenti che si sono verificati nel corso degli ultimi decenni.

Questa sensibile transizione delle figure genitoriali e del contesto famigliare si è in parte trasfusa nell'aggiornamento che il legislatore ha impresso a più riprese al codice civile per adeguarlo al differente del padre e della madre come percepiti nella nuova realtà sociale.

L'esempio dell'evoluzione del diritto e del suo adeguarsi ai mutamenti sociali è ben rappresentato dalle modifiche che ha subito il titolo IX, capo II, del I libro del codice civile, quello che nel corso degli anni ha sicuramente subito tra i maggiori emendamenti, senza considerare la legislazione speciale che ha caratterizzato e inciso profondamente sul diritto di famiglia. Una delle modifiche più interessanti è quella che riguarda proprio il rapporto tra genitori e figli, la cui evoluzione è ravvisabile anche soltanto nelle parole che il legislatore ha utilizzato per descrivere le natura delle relazioni giuridiche coinvolte.

Così l'originaria formulazione del codice del 1942 della rubrica del titolo IX capo II del primo libro era intitolato "della Patria potestà" in cui la concezione patriarcale della famiglia con “affermazione del principio giuridico della sottoposizione dei figli al potere familiare dei genitori” (punto 166 della Relazione al Re del 16 marzo 1942) e nella centrale e preminente figura del padre si fondeva con il carattere pubblicistico dell’istituto e con le aspirazioni dirigiste del regime.

La riforma del diritto di famiglia, introdotta con la legge 19 maggio 1975 n. 151, aggiorna la rubrica del titolo IX e la potestà da "patria" diventa "dei genitori", in questo modo attestando il legislatore la trasformazione e il superamento della famiglia patriarcale da un lato e il riconoscimento di un'eguaglianza formale e sostanziale dei genitori nei confronti dei figli. In questa evoluzione rimane fermo e irremovibile il concetto del potere insito nel termine potestà che madre e padre detenevano nei confronti dei figli minori.

La rubrica del titolo IX subisce nuove modifiche e cambiamenti prima nel 2012, allorché nell'ambito della potestà dei genitori il legislatore disciplina i diritti e i doveri dei figli, e, poi, nel 2013 quando la potestà lascia il posto alla responsabilità.

Proprio questa ultima modifica segna un cambiamento radicale del legislatore nei confronti della concezione giuridica del rapporto genitori figli, non più incentrato sul potere esercitato nell'ambito dei rapporti famigliari, ma sulla responsabilità che i genitori assumono nei confronti della crescita psicofisica dei figli e dei loro diritti così come riconosciuti dal codice civile.

Così accanto al riconoscimento dello status giuridico dei figli si accompagna la declinazione dei loro diritti e doveri, nella quale i primi assumono per la prima volta un ruolo più rilevante e preminente come ben risulta dalla formulazione dell'art. 315bis c.c.

Sullo sfondo di tale evoluzione è evidente la strada segnata dall'art. 30 della Costituzione è "dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli", che ha orientato e determinato le scelte del legislatore. Nell'art. 30 citato è però chiaramente espresso un altro fondamentale principio che riguarda il ruolo dei coniugi e cioè la loro sostanziale eguaglianza e responsabilità nei confronti dei figli. Nel precetto costituzionale si trova già il sovvertimento di quel rapporto genitoriale e famigliare che il diritto di famiglia ha superato solo con la riforma del 1975 e poi con quelle succedutesi all'alba del nuovo millennio.

A questo punto è di tutta evidenza come nel diritto positivo la posizione dei genitori di fronte ai figli sia la medesima e non vi sia, sotto il profilo dei diritti e dei doveri alcuna distinzione tra il padre e la madre. Ancora più evidente come il legislatore abbia dato attuazione all'art. 30 della Costituzione non indicando in modo diretto i diritti dei genitori, ma elencando i diritti e i doveri dei figli e, così, sancendo la centralità del minore nei rapporti famigliari.

Questo stato giuridico di diritti e doveri dei minori e del loro rapporto con i genitori non subisce cambiamenti sotto un profilo formale nel quadro della crisi della famiglia, non esistendo nel nostro diritto positivo alcuna norma che direttamente preveda un suo mutamento in caso di separazione o di divorzio. Un padre separato o divorziato ha sempre gli stessi diritti e doveri che caratterizzano il suo rapporto con i figli.

Tanto è vero che l'art. 337 ter del codice civile stabilisce espressamente che in caso di separazione e divorzio "Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale". Attraverso il riconoscimento dei diritti del minore, ancora una volta il legislatore delimita e sancisce i diritti dei genitori e lo fa proprio nell'ambito della soluzione della crisi della famiglia.

Non si può, però, negare che, sotto il profilo sia sostanziale che pratico, la crisi del rapporto di coniugio incida in modo netto e diretto nei rapporti tra genitori e figli ed in particolare determini in modo automatico una compressione dei diritti di uno dei genitori, quello che dovrà allontanarsi dalla casa coniugale, che per comune esperienza di solito è proprio il padre.

Occorre, dunque, porre l'attenzione alla regolamentazione dei rapporti tra i coniugi funzionale al ruolo di genitori nella crisi della famiglia. A fronte della parità loro riconosciuta dalla Costituzione e dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, cui si accompagnava anche l'introduzione dell'istituto dello scioglimento del matrimonio nel nostro Paese, il ruolo dei genitori nell'ambito della separazione e più in generale nella crisi della coppia è stato del tutto peculiare.

Infatti, fino al 2006 il regime ordinario di affidamento della prole nella separazione era quello dell'affidamento monogenitoriale, ovvero i minori, a seguito dei provvedimenti presidenziali, erano affidati a uno solo dei genitori che di fatto esercitava in via esclusiva la potestà allora prevista dal codice civile. Secondo lo schema ricorrente i figli venivano affidati alla madre, cui in ragione della tutela dei minori, veniva assegnata a titolo gratuito anche la casa famigliare cui si aggiungeva un assegno di mantenimento per i minori. Questo modo di decidere dei tribunali che caratterizzava la quasi totalità dei casi, creava forti squilibri nella coppia. Il genitore non affidatario, di solito il padre, era penalizzato a vantaggio di quello cui veniva affidata la prole, vantaggi che si concretizzavano non solo nella pressoché autonoma gestione dei figli, ma che erano più che sensibili sotto il profilo economico.

Così dopo l'udienza presidenziale, prendevano il via una serie di iniziative da una parte dirette a scardinare i provvedimenti assunti dal Tribunale anche e soprattutto in merito all'affidamento con l'obiettivo di costringere il coniuge affidatario a cedere sulle questioni economiche.

In ogni caso, la discrasia è evidente: se il sistema di diritto positivo riconosceva una preminente e complessiva parità tra i genitori, non consentendo che tale parità subisse alterazioni per effetto della crisi della coppia, di fatto al momento della separazione ogni precedente equilibrio risultava compromesso, di solito per lo più in danno della figura paterna che vedeva compresso il suo ruolo e i suoi diritti.

Sotto il profilo sociale si è assistito e, purtroppo, si assiste a un altrettanto singolare fenomeno. I genitori che provvedevano ad accudire e crescere i figli fuori dallo schema dell'ormai desueta famiglia patriarcale, per effetto delle crisi famigliare assumono ruoli genitoriali fino a quel momento a loro totalmente estranei. Così i padri che fino a quel momento si erano occupati dei figli, quasi come delle seconde madri, per effetto dell'affidamento mono genitoriale diventano padri incapaci di accudire i propri figli e di conseguenza con limitate possibilità di vederli, ma con pesanti oneri a carico.

Questo senza considerare gli effetti socio economici della crisi della coppia. Non bisogna, infatti, pensare allo scioglimento di un nucleo famigliare come a un processo in cui le risorse siano illimitate e sia possibile sempre trovare delle soluzioni con cui mediare tra le differenti esigenze. Nella pratica ci si trova spesso in situazioni in cui una coppia che gode di un tenore buono o medio nell'attraversare la separazione si ritrovi a dover affrontare o condizioni economiche disagiate se non addirittura nuove povertà.

In questo contesto che ha creato nella pratica un'estrema litigiosità e precarietà dei rapporti tra i coniugi separati e una evidente compressione dei diritti dei padri nella gran parte dei casi penalizzati dalla separazione e dall'affidamento monogenitoriale, è intervenuta la riforma del 2006 che, sulla carta, ha sovvertito le regole fino a quel momento sovraintese all'affidamento dei figli minori.

La legge 8 febbraio 2006 n. 54 sovverte la regola dell'affidamento ad uno solo dei genitori e la sostituisce con quella dell'affidamento condiviso, così dando più concreta attuazione a quel concetto di bigenitorialità, già definito nell'art. 30 della Costituzione, incentrato sul preminente interesse morale e materiale dei figli.

Molte aspettative si sono così di conseguenza create, soprattutto in relazione alla figura dei padri separati che avevano visto fino al quel momento i loro diritti fortemente frustrati dai provvedimenti giudiziari. Aspettative che, però, sono state per lo più disilluse dalla concreta interpretazione ed attuazione delle nuove norme da parte dei giudici di merito e di legittimità.

Nella prassi giudiziaria si è assistito, infatti a un rapido svilimento della bigenitorialità con la previsione, accanto all'affidamento condiviso dei minori, di un genitore collocatario, della disciplina di visita a favore dell'altro genitore, con la istantanea riproduzione dello schema che aveva dominato per così dire l'era della monogenitorialità. Situazione cui la Cassazione sin da subito ha posto il suo sigillo, affermando il principio di diritto in base al quale l’affidamento condiviso del figlio minore a entrambi i genitori non esclude che il minore sia collocato presso uno dei genitori e che sia stabilito uno specifico regime di frequentazione per l’altro genitore giustificando, nelle righe di altra decisione, la corresponsione dell'assegno di mantenimento a favore del genitore collocatario.

Le decisioni delle Corti si sono cristallizzate così su una posizione che sotto il profilo pratico ricalca completamente quella precedente all'introduzione della regola dell'affidamento condiviso.

Da un lato è vero che affidamento condiviso non significa che il minore debba trascorrere lo stesso tempo con il padre e con la madre, magari trasferendosi da una casa all'altra, dall'altro non si può, però, negare che la rigida previsione di un genitore collocatario, con i successivi corollari del diritto di visita e del mantenimento risponda all'esigenza di garantire il superiore e preliminare interesse del minore, frustra sia lo spirito delle riforme sia l'aspettativa di un evoluzione dei rapporti tra genitori separati.

In conclusione, nonostante l'evidente complessità della materia e le implicazioni che non è stato possibile affrontare in questa sede, ancora oggi la bigenitorialità resta così confinata, per quanto riguarda i padri separati, nell'ambito, per carità assai rilevante, della responsabilità del genitore non collocatario, nei suoi doveri di mantenere ed educare i figli e nei suoi diritti di partecipare alla vita dei minori, al loro sviluppo, intervenendo nelle decisioni che riguardano la loro vita. Ciò, però, con evidente compressione della sua figura genitoriale e di quei diritti più strettamente personali che coinvolgono l'aspetto del rapporto relazionale con i minori.


Avv. Gregorio Troilo

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