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Rapporto padre-figlio nella crisi matrimoniale: evoluzione legislativa e sociale

Il ruolo del padre all’interno della famiglia ha subito, nel corso delle varie epoche, profonde trasformazioni.

Storicamente, la figura dell’uomo e, più propriamente, del padre è stata in via prioritaria associata, da un lato, all’esercizio di un vero e proprio ‘predominio’ familiare e, dall’altro, alla cura materiale dei membri della famiglia.

Forse per un retaggio antico, sin dall’epoca romana, il padre e la madre svolgevano nella famiglia ruoli distinti e tra loro ben differenziati:

- al “pater familias” veniva attribuita e riconosciuta una indiscussa supremazia nella gestione pratica e pragmatica del nucleo familiare, tale da condurre l’uomo, marito e padre, ad occuparsi in via esclusiva del sostentamento dei suoi membri, sui quali esercitava una incontestata egemonia (quella ‘patria potestà’ di antica tradizione che sintetizzava il dominio assoluto esercitato sulla prole, la cui cura materiale era appannaggio esclusivo del capofamiglia);

- alla donna, invece, restava affidata la cura della sfera morale e spirituale del nucleo familiare e, prioritariamente, dei figli, ove la madre si occupava e preoccupava, in via pressocché esclusiva, della loro educazione e del loro benessere psico-fisico.

Senza andare troppo in là nel tempo, chi non rammenta i nostri nonni o finanche i nostri padri che, ancora nel secolo scorso, erano normalmente e naturalmente dediti alla cura materiale della famiglia mentre alle mogli e alle madri era lasciata l’esclusiva dell’accudimento morale e spirituale della casa, del nucleo familiare e, prioritariamente, dei figli?

E, nell’accezione comune, era giusto così.

Non è certo questa la sede per indugiare sulla rivoluzione socio-culturale degli ultimi 50/70 anni che ha consentito alla società patriarcale e maschilista di un tempo di evolversi, riconoscendo alla donna un ruolo attivo e determinante nei più svariati settori della vita sociale, politica ed economica mai prima considerati. Il lungo e impervio percorso verso la parità di genere, tanto - e giustamente - sognato e voluto dagli anni ’70 del secolo scorso, ha condotto fortunatamente al raggiungimento di importanti traguardi, consentendo alle donne di rivendicare il proprio spazio in un mondo governato - ancora oggi, per molti aspetti, troppo - dall’uomo.

Venendo al tema qui in commento, dal punto di vista della famiglia e del diritto che disciplina questa fondamentale “società naturale” nella quale ciascuno di noi forma la propria personalità, il cammino evolutivo della società moderna verso il necessario equilibrio tra i sessi, nel rapporto con la prole, prende le mosse dalla Carta costituzionale che, all’art. 30, pone a carico di entrambi i genitori il diritto-dovere di mantenere, istruire ed educare i figli.

In tal modo, la legge fondamentale dello Stato, già nel 1948, coinvolgendo sia il padre che la madre nella crescita, nello sviluppo e nell’accudimento della prole, poneva le basi per il superamento di quella rigida dicotomia di ruoli proveniente dal passato che già il legislatore del 1942 aveva riconosciuto (o meglio, imposto), gravando ambedue i coniugi del dovere di mantenere, educare e istruire la prole (pur, all’epoca, conformando l’educazione e l’istruzione ai principi della morale e al sentimento nazionale fascista).

Se però quella orientata verso paritetici diritti-doveri di entrambi i genitori era l’inclinazione del diritto di famiglia nella stabilità del vincolo matrimoniale, diversamente si poneva la disciplina legislativa nell’ipotesi di crisi coniugale.

La stesura originaria del Codice Civile del 1942, approvato con R.D. 16.3.1942 n. 262 che, partendo dal principio fondamentale dell’indissolubilità del matrimonio, consentiva esclusivamente la separazione personale e solo in caso di colpa di uno dei coniugi, prescriveva che la prole fosse affidata a quello dei due che fosse risultato ‘esente da colpa’. La prima formulazione dell’art. 155 in tema di provvedimenti riguardo ai figli stabiliva che “Il tribunale che pronunzia la separazione dichiara quale dei coniugi deve tenere presso di sé i figli e provvedere al loro mantenimento, alla loro educazione e istruzione”, proseguendo poi con disposizioni di chiaro stampo fascista.

Al di là della connotazione politica dell’intera formulazione che qui poco interessa, la disciplina codicistica in ipotesi di crisi del rapporto coniugale di fatto “esautorava” uno dei genitori da ogni onere connesso a mantenimento, educazione e istruzione della prole, posto in via esclusiva in capo a quello dei genitori ritenuto “meritevole” di tenere i figli presso di sé.

Ancora nella seconda metà del secolo scorso, la riforma del diritto di famiglia realizzata con la Legge 19.5.1975 n. 151 si confermava ispirata all’approccio monogenitoriale, anche se registrava i primi timidi segnali di apertura verso il riconoscimento, in capo a entrambi i genitori, di paritari diritti/doveri verso la prole (invero, un primo segno di superamento dell’approccio monogenitoriale si rinveniva già nella legge n. 898 del 1970, c.d. Legge sul Divorzio, che consentiva al Tribunale, ove ritenuto utile all’interesse dei minori, di disporre “l’affidamento congiunto o alternato”).

Difatti, secondo il novellato art. 155 c.c., il giudice investito della separazione avrebbe dichiarato a quale dei coniugi i figli sarebbero stati affidati, attribuendo a costui l’esercizio esclusivo della potestà su di essi e, al contempo, avrebbe affidato ad entrambi l’adozione delle decisioni di maggiore interesse per la prole, attribuendo al genitore non affidatario una sorta di potere di controllo e vigilanza sull’operato dell’altro oltreché di richiesta di intervento del giudice ove necessario, a tutela dell’interesse dei figli.

Dunque, la formulazione della norma introdotta con la riforma del 1975, in ipotesi di cessazione del rapporto coniugale ed affettivo, continuava a contemplare l’affidamento monogenitoriale quale regime ordinario di affidamento dei figli, attribuendo l’esercizio esclusivo della potestà genitoriale al solo genitore affidatario e riconoscendo all’altro un ruolo marginale di “sorveglianza” sulla condotta del primo, a tutela dei figli.

Ciò, come ovvio, continuava a penalizzare fortemente il genitore non affidatario, di fatto allontanato ed estromesso dalla vita e dalle vicende del figlio, avvantaggiando oltremodo il genitore affidatario che, nel 90% dei casi, per prassi giudiziaria consolidata, coincideva con la madre, in aperto contrasto con il concetto di bigenitorialità già sancito, ante litteram, dal sopra richiamato art. 30 della Costituzione italiana e dalle principali convenzioni internazionali.

Tale situazione di squilibrio, inconciliabile con il dettato costituzionale, portò alla formulazione di alcune proposte di riforma del sistema dell’affidamento dei figli, sfociate poi nella legge n. 54 del 2006 che, ribaltando il principio dell’affidamento esclusivo, introduceva l’inverso criterio dell’affido “condiviso” dei figli, nell’ottica di un effettivo esercizio della bigenitorialità e della tutela dell’interesse del minore.

L’art. 155 c.c., modificato dalla citata norma, riconosceva infatti espressamente il diritto del minore di mantenere un “rapporto equilibrato e continuativo” con ciascuno dei genitori e di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi, sancendo dunque - sul presupposto che la separazione non muta il profilo delle competenze e responsabilità proprio del regime matrimoniale - il definitivo superamento dell’affidamento monogenitoriale sino ad allora dominante in favore dell’affidamento condiviso, posto come regola generale.

L’applicazione concreta della norma - che, secondo molti, tradì le attese e non modificò sostanzialmente il regime monogenitoriale - non portò però i risultati promessi, tanto che la disciplina del rapporto genitori-figli in caso di crisi del vincolo matrimoniale fu oggetto della nuova - e sin qui ultima - riforma introdotta dal D.Lgs. 28.12.2013 n. 154, attualmente vigente.

Senza entrare nello specifico dell’intera normativa di cui al citato intervento legislativo, in tema di esercizio della responsabilità genitoriale, gli artt. 337 bis e seguenti, introdotti ex novo nella disciplina codicistica, evidenziano il tentativo del legislatore di rendere sempre più effettivo il criterio della bigenitorialità, quale principio ispiratore dell’intera materia,

- ribadendo il riconoscimento, in capo al minore, del diritto di “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi”,

- attribuendo al giudice della separazione di valutare “prioritariamente” la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori,

- relegando a ipotesi del tutto residuali la possibilità dell’affidamento esclusivo, configurabile soltanto in caso di potenziale pregiudizio per il minore.

Alla luce del veloce excursus normativo sin qui osservato, è indubbio che, dalla metà del secolo scorso, l’intera disciplina legislativa è stata sottoposta ad una vera e propria rivoluzione copernicana: dalla monogenitorialità esclusiva si è giunti in pochi decenni al riconoscimento di una bigenitorialità piena che riconosce ad entrambi i genitori un ruolo attivo e concreto nella cura materiale e spirituale della prole.

In sintesi, si è legislativamente realizzato il superamento di quella rigida differenziazione di ruoli propria dell’epoca antica e che l’evoluzione socio-culturale aveva certo reso anacronistica.

Sulla carta ciò è sicuramente vero.

Nel concreto, però, non può tacersi il fatto che, ancora oggi, si registra una sorta di squilibrio nella gestione non tanto della sfera materiale della prole, quanto di quella morale ed affettiva, rispetto alla quale la donna-madre tende a mantenere quel ruolo di ancestrale “egemonia” rispetto al padre che viene ancora astrattamente ritenuto quasi “incapace” di comprendere e soddisfare i reali bisogni del figlio, come se la madre mantenesse il primato in tema di suo accudimento; ciò in assoluto contrasto con i principi secondo cui il dovere dei genitori non è limitato al soddisfacimento dei bisogni materiali, ma concerne altresì i bisogni affettivi, morali, culturali e spirituali dei figli, al fine di una sana formazione ed un equilibrato sviluppo della loro personalità.

Il vero e proprio “rapporto equilibrato e continuativo” indicato dal legislatore e che i giudici, nell’applicazione pratica della norma, dovrebbero garantire deve in concreto mantenere presenti e paritarie le figure di entrambi i genitori ove nessuno di essi deve assumere, rispetto all’altro, una posizione predominante.

Nessuno dei genitori - segnatamente la madre - deve essere o ritenersi più importante o superiore all’altro, maggiormente in grado di accudire il figlio e di occuparsi dei suoi bisogni e, agli occhi del figlio, entrambi i genitori devono avere la stessa rilevanza ed essere entrambi, allo stesso modo, punti di riferimento.

La bigenitorialità può dirsi effettivamente realizzata solo quando vi sia una effettiva compartecipazione dei genitori alle scelte riguardanti la crescita e la formazione del figlio, risultato conseguibile se, e solo se, si riconosca un corrispondente ed equilibrato accesso di entrambi i genitori alla vita e al quotidiano del minore; il diritto del figlio a ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da parte del genitore può trovare realizzazione soltanto se quest’ultimo sia realmente posto e mantenuto in grado di svolgere il proprio ruolo.

Certo, la disciplina legislativa ha fatto un grande cammino verso il riconoscimento del giusto ruolo di entrambi i genitori all’interno della famiglia:

- da un lato, il ruolo della madre si è “affrancato” dalla supremazia patriarcale di antica memoria,

- dall’altro, la figura del padre è uscita dagli angusti confini della cura materiale del nucleo familiare, assumendo un ruolo attivo nella tutela e protezione anche della sfera educativa e morale dei figli.

Nella direzione del maggiore riconoscimento della figura paterna vanno, ad esempio, le misure di sostegno alla bigenitorialità, quali il congedo di paternità o il diritto di astensione del padre lavoratore, misure che in definitiva possano realmente mettere (anche) il padre in condizioni di accudire con effettività i propri figli, garantendo non solo sostegno materiale, ma anche presenza e vicinanza.

Molto è stato fatto e, probabilmente, tanta strada dovrà ancora percorrersi per garantire effettiva e concreta parità tra i genitori nel rapporto con i figli, migliorando ove possibile la disciplina legislativa e superando le limitazioni del sistema giudiziario che, ancora oggi, opera sostanzialmente e troppo spesso secondo il vecchio modello di affidamento monogenitoriale, in base ai criteri del ‘genitore prevalente’.

Pochi sanno che, proprio in questi giorni (19 novembre), si celebra in alcuni paesi, tra cui l’Italia, la “giornata internazionale dell’uomo” che ha come finalità, tra l’altro, proprio quella di valorizzare la figura del padre all’interno della famiglia, garantendogli la possibilità di instaurare e coltivare in concreto un rapporto maggiore e migliore con i propri figli.

Avv. Paola Salvi

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